Comunità Ebraica di Alessandria (II Versamento)


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Introduzione archivistica Di seguito si forniranno alcune informazioni sulle condizioni del materiale oggetto di inventariazione e si illustreranno le scelte fatte nella schedatura e nell’organizzazione di detto materiale. Questa breve premessa è necessaria ai fini di una proficua consultazione sia dell’inventario sia della documentazione. Il versamento La documentazione schedata in questo inventario rappresenta solo una parte dell’archivio della comunità ebraica di Alessandria: molte carte, stando alle fonti (cfr. introduzione storica), andarono distrutte nel 1943, mentre un’altra parte del fondo è stata versata all’archivio alcuni anni fa ed è già stata ordinata e schedata nel 2005. Non solo: una terza parte dell’archivio è stata venduta dalla comunità ai Central Archives for the History of the Jewish People di Gerusalemme nel 1978. I documenti qui inventariati costituiscono, dunque, la quarta parte dell’archivio e il secondo e ultimo versamento, realizzato nel 2009 dalla comunità di Alessandria in concerto con la comunità di Torino, da cui quella alessandrina dipende a partire dal 1986, e con l’Archivio Terracini. Le carte versate nel 2009 sono tendenzialmente le più recenti, mentre quelle schedate nel 2005 risalgono più indietro nel tempo: non mancano, tuttavia, numerose sovrapposizioni di date. Torneremo tanto sui collegamenti cronologici quanto su quelli funzionali e di contenuto fra le carte appartenenti ai due versamenti nel terzo paragrafo di questa introduzione. Iniziamo con il dedicare alcune righe ad una breve descrizione della condizione delle carte al momento del versamento. Un primo elenco di versamento è stato stilato da chi scrive nel giugno 2009, mentre queste erano ancora conservate in alcuni armadi dei locali della comunità alessandrina, in via Milano 7. La documentazione, che giaceva in stato di parziale disordine, è stata elencata sommariamente e condizionata all’interno di sei scatoloni di varie misure; ad essi è stato aggiunto un settimo scatolone, già sigillato, che conteneva la documentazione del fondo familiare Tedeschi-Guetta. In occasione di questo primo lavoro, che è consistito anche di un intervento di scarto, è stato possibile individuare gli estremi cronologici di massima, le tipologie documentarie principali e una serie di pratiche già costituite, seppur in parte mescolate. Le carte sono arrivate così condizionate all’Archivio Terracini nel gennaio del 2010. Alcune scelte fatte nella schedatura e nel riordino Nella prima fase dell’intervento è stata effettuata una schedatura del materiale per mezzo del software della Regione Piemonte Guarini Archivi; la documentazione è stata analizzata a livello di documento e descritta per lo più a livello di fascicolo. Il numero provvisorio dell’unità archivistica, assegnato ai fascicoli durante la schedatura, è stato apposto a matita sulle camicie. Una volta schedata tutta la documentazione, la seconda fase è consistita nell’ordinamento concettuale del materiale (per mezzo della funzione “riordino” di Guarini Archivi): ciò ha consentito di affiancare visivamente (nella struttura “ad albero” proposta dal software) i fascicoli riferiti ad una stessa funzione o che contenevano documentazione omogenea dispersasi nel corso del tempo. Si è dunque proceduto ad accorpare fisicamente la documentazione che si presentava omogenea in modo inequivocabile e l’archivio ha virtualmente assunto la struttura che proponiamo nello schema di ordinamento. Il numero provvisorio delle u.a. è stato quindi affiancato dalla segnatura definitiva e, in un secondo tempo, da essa sostituito. Contestualmente è stato redatto l’inventario; ad esso è premessa, oltre alla presente nota, una breve introduzione sulla storia della comunità di Alessandria (con accenni alle comunità di Asti e Acqui Terme, che dal 1930 ne divennero sezioni dipendenti). Molti subfondi, serie, sottoserie e sotto-sottoserie sono inoltre preceduti da introduzioni specifiche. Si è infine proceduto con il riordino fisico delle carte, che ha visto l’applicazione su ogni fascicolo o busta di etichette appositamente create, e lo spostamento dei fascicoli in modo da riprodurre materialmente la sequenza definitiva prevista dallo schema di ordinamento. Anche i faldoni sono stati dotati di etichette con l’indicazione dei fascicoli contenuti. Nella lettura dell’inventario così come nella consultazione delle carte si deve tener conto di alcune condizioni. 1. Le serie descritte sono quasi sempre mutile, o perché il materiale è andato perduto, è stato distrutto o è stato venduto (ai Central Archives di Gerusalemme), o, soprattutto, perché è conservato nel fondo inventariato nel 2005. Alcune sottoserie o sotto-sottoserie contengono di fatto una sola u.a. Non solo: come meglio specificato oltre e nell’inventario (introduzioni ai subfondi e alle serie) – e come era già stato indicato nell’introduzione dell’inventario del 2005 – la documentazione sia delle varie sezioni della comunità (Alessandria, Asti e Acqui Terme) sia delle opere pie è a tratti accorpata, a tratti disgiunta. 2. Più spesso che per altre comunità ebraiche piemontesi, il materiale conservato è in parte organizzato in quelle che erano le pratiche originarie: ciò si spiega soprattutto con l’epoca recente di produzione e utilizzo delle carte, in altre parole con il fatto che queste non sono andate soggette quasi ad alcuno spostamento nel periodo compreso fra il loro utilizzo – e, dunque, la produzione del cosiddetto “archivio corrente” – e la loro schedatura. Larga parte dei documenti era comunque confusa e accorpata in modo disordinato ed è stata riordinata da chi scrive. Nei casi in cui si conservano i fascicoli originali, con titoli attribuiti nel periodo o nei periodi di utilizzo delle carte, tali titoli sono stati registrati nella schedatura e la camicia originale è stata condizionata insieme alla documentazione, all’interno della nuova camicia; nell’inventario simili titoli “originali” compaiono, in caratteri corsivi, al di sotto dei titoli attribuiti in sede di schedatura: dal momento che i titoli originali vengono fedelmente trascritti, essi presentano qua e là alcune inconsistenze grafiche rispetto al sistema adottato per la redazione dei testi (ad esempio, le sigle ricorrono senza punto fermo fra le iniziali che compongono gli acrostici, le date sono segnate con criteri diversi, le abbreviazioni non sono sciolte e così via). 3. I livelli all’interno dei quali è stato ordinato il materiale non sempre corrispondono a ciò che si può definire una funzione: ciò dipende in primo luogo dall’organizzazione effettiva dell’ente, in secondo luogo dalla condizione della documentazione, che in certi casi non poteva essere accorpata coerentemente in vere e proprie funzioni. Si distinguono, dunque, alcune serie propriamente dette, e alcune serie create piuttosto sulla base dell’oggetto o, più spesso, della tipologia documentaria. 4. All’interno di ciascuna serie o sottoserie le u.a. sono tendenzialmente disposte in ordine cronologico, prendendo in considerazione la prima data dell’arco cronologico attestato. In un paio di casi soltanto (ad esempio nella corrispondenza con l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane), le u.a., prima di essere disposte per data, sono accorpate in due blocchi tipologici (restando alla corrispondenza con l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, “circolari” e “corrispondenza” semplice). 5. Gli estremi cronologici segnalati nei titoli attribuiti compaiono al di fuori di parentesi se si tratta di un elemento caratterizzante dell’identità dell’u.a., ovvero se fanno effettivamente parte del titolo come ad esempio nel caso delle cartelle delle imposte o in genere nel caso della documentazione accorpata abitualmente per anno o “esercizio” (nella contabilità); diversamente, compaiono fra parentesi tonde. Ciò implica che, mentre vi è una completa congruenza fra le date indicate fra parentesi tonde a fianco dei titoli e le date nel campo della datazione cronologica (nella colonna di destra dell’inventario), lo stesso non è sempre vero per le date fuori di parentesi; un caso lampante è quello dei bilanci preventivi, per i quali il titolo è, ad esempio, “Bilancio preventivo esercizio 1980”, mentre la datazione cronologica, che si riferisce naturalmente alla data di produzione del documento, potrà essere “ottobre 1979” (il bilancio di previsione si produce, come noto, alcuni mesi prima dell’esercizio cui si riferisce). 6. È necessario accennare, seppur brevemente, anche ai criteri che sono stati scelti nella creazione dell’indice. L’indicizzazione riveste particolare importanza in quanto permette di ovviare in parte al consueto problema della dispersione di materiale omogeneo all’interno dei diversi livelli. L’indice dei nomi consente infatti di trovare traccia dell’attività di un individuo o di un ente anche nei casi in cui esso non sia menzionato esplicitamente nel titolo della serie o sottoserie e non sia, dunque, immediatamente rintracciabile consultando lo schema di ordinamento dell’inventario. Non sono stati, chiaramente, indicizzati tutti gli individui menzionati nelle carte, ma soltanto quelli citati nelle descrizioni delle u.a.: si troveranno, ad esempio, i presidenti della comunità, i rabbini e alcuni enti pubblici e privati. I nomi sono indicizzati nell’ordine in cui compaiono nella documentazione, non vi sono principi gerarchici. 7. Una questione collegata ai nomi dev’essere tenuta presente, sia per quanto concerne la consultazione dell’indice sia per quanto concerne la lettura dell’inventario: la denominazione di alcuni enti mutò nel corso degli anni oppure coesistettero denominazioni differenti (ad esempio per alcune opere pie: un esempio è quello dell’opera pia di Acqui: “Confraternita di Beneficenza (e Misericordia) israelitica” e “Compagnia di Beneficenza”). 8. Quanto alla “consistenza”, in questo campo dell’inventario viene indicato il numero di fascicoli, buste, registri, blocchi o rubriche di cui è composta l’u.a.; non si indica il numero di carte, salvo quando si tratta di una soltanto. 9. Concludendo con i criteri scelti nella presentazione della documentazione, per ragioni di varietà espositiva si è scelto di alternare le diciture “enti amministrati dalla comunità” e “opere pie” per indicare la “Compagnia di Beneficenza Israelitica, Pace e Buona Morte” di Alessandria, le “Opere Pie Unificate” di Alessandria, la “Congregazione Israelitica di Carità e Beneficenza” di Asti, l’“Istituto elementare Clava” di Asti e la “Compagnia di Beneficenza Israelitica” di Acqui. Chiudiamo il paragrafo con un cenno sull’organizzazione dei fondi e dei subfondi che è stata scelta in sede di riordino; poiché – come naturale – la disposizione delle carte viene ricostituita e rielaborata sulla base della storia degli enti, alcuni riferimenti fatti di seguito potranno essere verificati e meglio circostanziati in seguito alla lettura della breve introduzione storica. Come già detto, la subordinazione delle comunità di Asti e Acqui Terme, con le relative opere pie, alla comunità di Alessandria (decretata dalla legge Falco nel 1930) non significò una completa centralizzazione della gestione, morale e amministrativa, delle piccole comunità; Asti e Acqui continuarono a curare autonomamente non soltanto la propria vita “culturale-spirituale”, ma in parte anche quella di gestione amministrativo-patrimoniale (cfr. ad esempio u.a. 292). Si deve, inoltre, considerare che l’accorpamento portò conseguenze istituzionali e funzionali anche per la comunità di Alessandria, che assunse una nuova, duplice, veste: da un lato, quella di “Amministratore generale”, al di sopra delle singole sezioni, e, dall’altro, quella di sezione a sé, parallela a quelle di Asti e Acqui. Naturalmente, nella funzione di Amministratore di tutte e tre le comunità, Alessandria raccoglieva a sé la documentazione di sintesi e controllava l’andamento contabile delle sezioni dipendenti, nonché delle opere pie. Purtroppo, alla luce del materiale che si conserva, non è possibile individuare una distribuzione ufficiale e regolare di tutte le funzioni fra amministrazione centrale ed enti dipendenti, e la produzione documentaria conferma questa irregolarità. Che la gestione fosse confusa era stato rilevato anche dal Comitato regionale di controllo, il quale se ne lamentò a proposito dell’alternanza ingiustificata riscontrata nella medesima documentazione fra l’intestazione “Comunità Israelitica di Alessandria” e quella “Opere Pie Unificate” (u.a. 256). In considerazione di quanto accennato, dobbiamo, pertanto, distinguere fra le tre sezioni della comunità, separate fra loro, separate da quella che possiamo chiamare “amministrazione centrale” e ad essa subordinate, e l’amministrazione centrale, appunto (che, nella fattispecie, condivideva sede e organi istituzionali con la sezione di Alessandria). All’amministrazione centrale afferiscono vari tipi di documenti sintetici: quelli riferiti alle tre sezioni della comunità insieme, quelli riferiti a due sezioni della comunità, quelli riferiti a due o tre sezioni della comunità insieme ad una o più opere pie, e anche quelli riferiti a due o più opere pie insieme, senza menzione alcuna delle comunità vere e proprie. Stando così le cose, sarebbe stato all’apparenza sufficiente creare nove “fondi”: uno per l’amministrazione generale, tre per le sezioni della comunità e cinque per le opere pie (Istituto Clava compreso). Tuttavia, una parte della documentazione ha impedito di realizzare l’ordinamento così pensato e ha costretto ad un’ulteriore partizione, che prevede due grossi fondi separati “Comunità” e “Opere Pie”, rispettivamente con quattro subfondi (Amministrazione generale e le tre sezioni) e cinque subfondi (singole opere pie). Le carte in parola attestano, infatti, come le opere pie mantenessero una maggior autonomia nei confronti dell’amministrazione centrale rispetto a quella di cui, invece, godevano le tre sezioni locali della comunità, ovviamente legate in modo più stretto, sia dal punto di vista teorico-istituzionale sia dal punto di vista gestionale e amministrativo, alla sede centrale; fra questi documenti segnaliamo, a titolo di esempio, le dichiarazioni dei redditi, che si dividono fra quelle della comunità intesa in senso completo (le due sezioni di Asti e Alessandria insieme, Acqui non è attestata) e quelle delle singole opere pie, separate una dall’altra. Il “fenomeno documentario” manifestatosi in occasione dell’assorbimento di Asti e Acqui, con le relative opere pie, in Alessandria si ripresenta in forma simile nelle carte prodotte dopo l’assorbimento della comunità di Alessandria in quella di Torino. Infatti, quando Alessandria si è trasformata in sezione dipendente dalla comunità torinese, la sua attività non è cessata; la sezione ha mantenuto una vita autonoma, seppur limitata a livello di gestione finanziaria e patrimoniale, e le carte ne danno conto. La produzione di documenti, che sempre più spesso sono – ovviamente – collegati alla sede di Torino, è andata man mano scemando sino alla decisione ultima del delegato, Silvio Norzi, che nel giugno 2009 ha affidato all’archivio Terracini sia le carte novecentesche non ancora consegnate con il primo versamento sia quelle da lui prodotte negli anni successivi al primo versamento. Confronto e collegamento fra i due versamenti Diamo di seguito alcune indicazioni che possono essere utili sia per la ricerca delle carte distribuite fra i due versamenti successivi (ante 2005 e 2009), sia anche ai fini della ricostruzione storico-documentaria della vita della comunità. • Innanzi tutto, come anticipato, il primo versamento consisteva di un numero molto più elevato di carte ottocentesche, mentre il secondo manca, fatte poche eccezioni, di carte così antiche; viceversa, i documenti che qui presentiamo arrivano fino al 2009. Ciò non toglie che vi siano sovrapposizioni di date per tutti i decenni, in particolare per gli anni Ottanta del Novecento. Le carte antiche forse più interessanti del primo versamento si trovano nelle u.a. indicate con i numeri 1-7, 468-518 e 560-588, che contengono i documenti statutari, gli atti giuridici e il carteggio ottocentesco delle sezioni di Alessandria e Asti. • La sovrapposizione/continuità fra i due “fondi” interessa non solo le date, ma anche le funzioni e le serie archivistiche, in specie per quanto concerne contabilità, patrimonio e imposte (nel presente inventario considerate una sottoserie della contabilità generale). • Nonostante le ovvie corrispondenze fra le carte dei due versamenti, esistono serie, e addirittura fondi, attestati in un versamento e non nell’altro. Innanzi tutto, i fondi. Per menzionare solo le differenze macroscopiche, le carte schedate nel 2005 interessano alcune opere pie che non figurano più fra quelle del 2009, perché confluite in un unico ente: si tratta delle opere pie “Giuseppe Vita Pugliese”, “Debora Levi Vitale”, “Rafael Jair Pugliese” per Alessandria, e delle opere pie “Samuel Levi”, “Matassia Levi” e “coniugi Montalcini” per Acqui, che nel 1957 furono riunite nelle “Opere Pie Israelitiche Unificate” di Alessandria. Quanto alle carte schedate nel presente inventario, esse attestano l’attività del gruppo sionistico, apparentemente assente da quelle versate nel 2005, e l’attività privata dell’officiante Italo Tedeschi e di sua moglie, Enrichetta Guetta, cui è dedicato un fondo a sé. Venendo alle differenze più rilevanti in termini di serie o u.a., notiamo che la documentazione di questo secondo versamento è più povera di documenti costitutivi e, in generale, di documenti importanti per la ricostruzione della storia e della storia istituzionale dell’ente: per colmare una simile lacuna, rimandiamo, in particolare, alle u.a. 1-10 dell’inventario del 2005, con gli “Statuti e regolamenti” e gli “Inventari delle carte d’archivio”, alle unità 82-97, con “Censimenti e documentazione relativa alla popolazione”, e alle u.a. che descrivono la contabilità divisa per esercizio, nelle quali si conservano i bilanci preventivi e consuntivi. • Una sovrapposizione completa della documentazione si ha per le unità che in questo inventario sono descritte nel subfondo dell’Amministrazione generale come “Anagrafe nascite”, “Anagrafe decessi” e “Anagrafe matrimoni” (rispettivamente u.a. 8, 9 e 10): si tratta di documentazione fotocopiata da originali conservati fra le carte del primo versamento (gli originali dell’u.a. 8 si trovano nelle u.a. 85, 89 e 91 dell’inventario del 2005, gli originali dell’ u.a. 9 si trovano nelle u.a. 86 e 88, e gli originali dell’u.a. 10 si trovano nell’u.a. 87. Presumibilmente, al momento del primo versamento il delegato di sezione aveva ancora interesse a conservare almeno copia di queste carte). Esempio della scheda di unità archivistica Le schede dei subfondi, delle serie e delle sottoserie prevedono semplicemente il titolo (con estremi della datazione ), eventuali introduzioni storico-biografica e archivistica, e nel caso dei soli subfondi l’indicazione della consistenza (di quante serie, sottoserie e/o u.a. è composto il subfondo). Le schede delle u.a., che descrivono la documentazione conservata, si presentano invece come segue: numero dell’unità arichivi- stica Titolo attribuito con estremi della datazione (dentro o fuori di parentesi: cfr. sopra) Eventuale titolo originale Descrizione dell’unità archivistica Consistenza e lingua Estremi cronologici precisi Introduzione storica La storia della comunità ebraica alessandrina, una delle maggiori del Piemonte, copre mezzo millennio. Come per la gran parte degli insediamenti analoghi, le vicende più antiche non sono documentate a sufficienza: possediamo alcune notizie sporadiche, che attestano fuori di dubbio la presenza ebraica, ma che non consentono di avanzare ipotesi più puntuali sulla natura della comunità o del gruppo di cui i primi Ebrei della zona facevano parte. Sappiamo che nel 1490 si insediò in Alessandria – allora sotto il governo sforzesco – il banchiere Abramo di Giuseppe Vitale de’ Sarcedoti, probabilmente in fuga dalla Francia. Il 30 agosto 1501 la città, che aveva avuto nel frattempo modo di valutare sino a che punto l’attività di prestito di Abramo fosse utile al proprio benessere, concesse a lui e alla famiglia una condotta illimitata. Salvatore Foa riferisce che nella metà del XVI secolo alla famiglia Vitale si affiancò la famiglia Levi; tuttavia, su richiesta degli alessandrini, Filippo II d'Asburgo (1527-1598) scrisse al cardinale di Trento, allora governatore dello Stato di Milano (Foa non specifica di chi si trattasse, ma possiamo pensare a Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento e governatore di Milano fra il 1556 e il 1557, ciò che consente anche di precisare la data), perché proibisse ulteriore afflusso di Ebrei nella città. Lo stesso Filippo, nel 1590, decretò l’espulsione dal Ducato di Milano. Il decreto – da ottemperare nel termine di otto mesi dopo la sua promulgazione e che avrebbe dovuto colpire naturalmente anche la popolazione ebraica di Alessandria – venne posticipato fino al 1592 (e poi ancora fino al 1596) grazie ad un’ambasciata a Madrid guidata da un ebreo alessandrino, Simone Vitale Sacerdote, figlio di Vitale. Quando l’esecuzione del decreto non poté più essere posticipata e tutti gli 889 Ebrei del Ducato dovettero partire, fu concessa una proroga a due famiglie di Cremona, a due di Lodi e a due di Alessandria, fra cui quella di Simone appunto, affinché vi fosse il tempo di chiudere alcuni affari finanziari. Di fatto, la famiglia di Simone non lasciò mai la città e ben presto intorno ad essa venne costituendosi un nuovo nucleo ebraico, che alla fine del secolo successivo contava più di 200 persone. La permanenza in Alessandria, benché continua, non fu sempre serena, sin dai tempi della temperie controrifomistica del secondo Cinquecento e, soprattutto, dopo l’arrivo dei Gesuiti in città, nel 1591. Fra gli episodi più gravi si ricorda la calunnia, purtroppo consueta, di aver rapito un bambino per impastare con il suo sangue le azzime di Pesach (1594). Il passaggio dal XVI al XVII secolo è periodo di incremento demografico per la comunità ebraica: nel 1601, come attesta il documento conservato all’Archivio di Stato di Alessandria, i Priori e i Deputati concessero ufficialmente ad una nuova famiglia, quella dei Pugliese, di risiedere in città e, stando al Foa, dal 1600 erano sotto la protezione del podestà di Alessandria anche i fratelli Isac e Giuseppe Amari (o Amar); del resto, i fratelli Amar compaiono ufficialmente nel volume dell’Archivio di Stato in un documento del 1618. Sia Clemente Pugliese sia gli Amar ricorrono più volte nei documenti degli anni successivi, a riprova del loro radicamento nel tessuto socio-economico della comunità e della città. Naturalmente, anche l’attività dei discendenti di Simone Sacerdote è documentata nelle carte: nel volume conservato all’Archivio di Stato è menzionato il figlio di Simone, Anselmo, ricordato per aver ospitato soldati di presidio alla città e per aver prestato alla città denaro senza interesse «et mobili». Nel 1614 egli aveva ottenuto dal Senato di Milano – per sé e per i dodici figli – l’esenzione dalle imposte straordinarie. Alla p. 14 sono citati anche il fratello di Anselmo, Vitale, e alcuni suoi cugini. La posizione della comunità ebraica in Alessandria appare appieno consolidata dalla patente del 1640, ottenuta da Diego Felipe de Guzmàn marchese di Leganes (governatore di Milano dal 1634, morto nel 1652) in cambio di un prestito di 5.000 scudi, con la quale erano confermati i privilegi concessi da Francesco II Sforza e da Carlo V. Benché, con la morte di Anselmo Vitale, nel 1666, fosse cessata l’esenzione dalle tasse straordinarie di cui anche i suoi figli godevano, il diritto alla residenza, che si estendeva per altro ai coniugi anche se questi erano forestieri, non venne revocato. Non mancano anche per il XVII secolo episodi di discriminazione nei confronti della popolazione ebraica, che culminarono nel 1684 con le istanze presentate dal cardinale Nunzio Milini, su ordine di Innocenzo XI, perché gli Ebrei di Alessandria e Lodi venissero cacciati dal Ducato di Milano. La faccenda non si risolse in breve tempo: le autorità locali, che nulla avevano a lamentare per la presenza ebraica, ma che anzi ne riconoscevano l’utilità per l’economia cittadina – come dimostra l’ampia relazione stilata all’uopo dal dottor Conti nel 1686 –, rimisero il caso a Carlo II (1661-1700). Questi nel 1688 deliberò infine – assecondando i desideri delle gerarchie ecclesiastiche, pur senza accondiscendere all’espulsione – che gli Ebrei rimanessero in città, ma raccolti e confinati in un’area delimitata, per quanto non distante dal centro, obbligati a portare il segno distintivo. Testimonianza indiretta del clima ostile che si era comunque generato in questi anni è un “Editto che non si molestino gli Ebrei”, del 1686, conservato nel volume dell’archivio di Stato (p. 64). A questo periodo risale anche il primo prospetto statistico della popolazione ebraica in Alessandria, che ricaviamo sempre dal Foa: stando ai dati riportati da Pedro de Zarate y Herrera, nel 1688 risiedevano in città 231 Ebrei. Per la maggioranza essi appartenevano alle famiglie Vitale, 24 in tutto, ma sono attestate anche una famiglia Levi (quella di Aron Josuè, cfr. nota 12), quattro famiglie Pugliese, tre famiglie Amar e la famiglia di un rabbino d’origine polacca. All’inizio del XVIII secolo, come noto, Alessandria passò ai Savoia nel contesto della guerra di successione spagnola. Conquistata la città nel 1707, Vittorio Amedeo II accordò alla comunità ebraica, in risposta ad un’istanza di conferma da essa presentata, la gran parte dei privilegi già concessi dai precedenti governanti. Nell’uniformare la condizione della comunità alessandrina a quella delle comunità insediate nelle altre città piemontesi, limitò tuttavia alcuni benefici precedentemente acquisiti: in particolare, la facoltà di rimanere in città non era più illimitata, ma da confermarsi ogni dieci anni per mezzo di apposita condotta. Abbiamo anche notizia di alcune richieste specifiche degli ebrei del Monferrato – conquistato nel 1708 – e di Alessandria, quali quella di limitare l’obbligo della segregazione in casa cui la popolazione ebraica era sottoposta nel periodo pasquale. Sotto i Savoia la condizione della popolazione ebraica andò complessivamente peggiorando, sia nei rapporti con le istituzioni, sia – pare – con la popolazione locale. Da Renata Segre apprendiamo, ad esempio, che nel 1719 gli Ebrei alessandrini erano stati accusati da alcuni mercanti di occupare i “sitti” migliori della città, quando pare si fossero limitati ad acquistare alcuni locali vuoti. Non solo: in città erano circolate nel 1754 satire antiebraiche, e il vescovo, Giuseppe Alfonso Miroglio, aveva chiesto la scarcerazione degli autori. Quanto alla struttura istituzionale, Alessandria subì la sorte delle altre comunità sabaude. Con l’annessione della città al Piemonte, l’“Università” ebraica di Alessandria era divenuta una delle tre maggiori, insieme a Torino e Casale: la sua popolazione, che andò aumentando sino a che divenne, a fine secolo, la più numerosa del regno, viveva per lo più in condizioni di povertà. Eccezione facevano i Vitale, abbienti banchieri radicati da sempre nel tessuto cittadino: A. Milano definisce efficacemente il ghetto, fondato nel 1729, «quasi un feudo dei Vitale». Del resto, già nel 1761 abitavano in Alessandria 36 famiglie con questo cognome, contro le 28 con altri (cfr. oltre). Stando a S. Foa, che riporta alcuni dati statistici – purtroppo, di nuovo, senza indicare la fonte –, un primo aumento della comunità si ebbe tra il 1726 e la metà del secolo: la comunità alessandrina, che nel 1726 contava circa 200 persone, arrivò presto alle 300 anime, soprattutto in ragione della concentrazione nel ghetto di Ebrei prima residenti nel circondario della città. Un ulteriore ampliamento è attestato nel censimento già citato, che Carlo Emanuele III aveva avviato nel 1761: la popolazione ebraica di Alessandria – questa volta beneficiando anche di un’immigrazione da altri Stati – aveva raggiunto le 64 famiglie per un totale di 420 persone. Foa riproduce il dettaglio di questo censimento, da cui rileviamo molti nuovi cognomi, a testimonianza appunto della presenza di Ebrei “forestieri”: De Angeli, Debenedetti, Della Torre, Montel, Pavia e Salom. L’aumento della popolazione aveva richiesto l’ampliamento e il restauro della sinagoga, cui Carlo Emanuele non si era opposto: l’inaugurazione si celebrò nel 1764. La Rivoluzione Francese portò con sé, come noto, un miglioramento politico e sociale per le comunità ebraiche del Piemonte. Tuttavia, la guerra causò anche grandi difficoltà agli ebrei alessandrini, come a tutta la popolazione: Foa riferisce di una contribuzione speciale cui dovette sottoporsi l'Università israelitica di Alessandria alla fine del 1700. E, di nuovo, sotto il governo napoleonico, che pure portò all'abrogazione di molte leggi discriminatorie, gli Ebrei alessandrini dovettero sborsare nel 1803 un contributo speciale di 50.000 lire. Sotto il profilo geografico-istituzionale, Napoleone I divise gli Ebrei piemontesi in due dipartimenti, ciascuno retto da un “Concistoro” composto di tre laici e due rabbini: l'Università israelitica di Alessandria fu annessa al Concistoro del Monferrato, insieme alle comunità di Casale, Vercelli, Torino, Biella, Ivrea, Moncalvo, Asti, Nizza Monferrato, e Acqui; rabbino capo del Concistoro fu dal 1812 l'alessandrino Moise Zecut Levi Deveali. Gli Ebrei di Alessandria vennero confermati nei loro diritti commerciali; un prospetto statistico risalente al 1806 testimonia la presenza di 92 famiglie per un totale di 550 persone, delle quali il documento registra anche le relazioni familiari e la professione. Fra gli Ebrei alessandrini si contano nove notabili del Concistoro di Casale. Con la Restaurazione (1814) gli Ebrei di Alessandria, al pari degli altri Ebrei piemontesi, dovettero tornare nel ghetto, furono espulsi dalle scuole pubbliche, dovettero liquidare le proprietà immobiliari; inoltre, fu loro proibito di costruire nuove sinagoghe e di tenere domestici cristiani. Fino al noto Statuto Albertino del 1848 gli unici passi avanti fatti dal governo sabaudo in merito all'integrazione e al conferimento di diritti alla popolazione ebraica furono l'abolizione definitiva del segno distintivo e la facoltà per i notabili delle famiglie ebraiche più ricche e in vista di acquisire titoli nobiliari. Con lo Statuto, che finalmente prevedeva anche l'accesso degli Ebrei all'esercito e alle cariche pubbliche, iniziarono a comparire nomi di Ebrei alessandrini, oltre che nella milizia e nella politica, anche in posizioni prominenti del commercio e dell'industria: Perosino (p. 30) cita ad esempio i consiglieri provinciali Giuseppe Vitale (1895) e Giuseppe Montel (1891-1898) e il presidente della commissione esecutiva dell’Esposizione artistica agricola industriale della Provincia di Alessandria (1870), cavaliere Bonaiut Vitale. Pochi anni dopo l’Emancipazione le comunità piemontesi si trovarono a dover deliberare in merito ad una questione politico-istituzionale delicata e importante, ovvero l’organizzazione dei loro rapporti reciproci. Contro la tendenza sostenuta dal noto rabbino torinese Lelio Cantoni, il quale auspicava ad una dipendenza di Alessandria da Torino, sembrò dapprima prevalere, con la promulgazione della cosiddetta “legge Rattazzi” del 1857 (per alcuni dettagli rimandiamo all’introduzione storica dei fondi archivistici della comunità torinese), un orientamento “autonomista”. Tuttavia, ben presto anche alcune comunità minori sembrarono costatare l’opportunità di una strutturazione sovracomunitaria che ne coordinasse l’attività e lo sviluppo: alle idee di una vera e propria dipendenza e, viceversa, di una completa autonomia rispetto alla comunità centrale, si venne nel tempo sostituendo quella del “Consorzio” (antenato dell’Unione delle Comunità Israelitiche – poi Ebraiche – Italiane); l’opzione del Consorzio fu sostenuta fra gli altri anche da un consigliere della comunità alessandrina, Donato Ottolenghi, il quale tuttavia risultò essere in minoranza all’interno del consiglio della comunità. Lo studio di Foa si ferma alla seconda metà del XIX secolo, e anche quello di Perosino, che pure prosegue fino alla Seconda Guerra mondiale, non tratta il periodo, che dovette essere nodale, della fine dell’Ottocento e del primo decennio del XX secolo. Assodata la presenza di Ebrei alessandrini sul fronte della Prima Guerra mondiale, nel corso degli anni Venti e soprattutto nei Trenta del Novecento vediamo il progressivo affermarsi dei provvedimenti antisemiti promulgati dal regime fascista, che toccarono – come noto – tutti gli ambiti, da quello del commercio a quello dell’impiego negli enti pubblici. Sul sorgere del fascismo, sul tempo delle persecuzioni razziali e della deportazione degli Ebrei di Alessandria esiste un’unica pubblicazione monografica, curata da Aldo Perosino: ad essa rimandiamo, con la prudenza espressa per il volume dedicato alla storia precedente cui abbiamo fatto riferimento più volte. È, tuttavia, necessario ricordare in questa sede almeno due importanti momenti della storia ebraica piemontese e alessandrina sotto il Fascismo e durante la guerra. In primo luogo, l’emanazione della nota legge Falco (R.D. n. 1731 dell’ottobre 1930; rimandiamo di nuovo all’introduzione storica dei fondi della comunità torinese); per la comunità alessandrina il provvedimento determinò un cambiamento essenziale a livello funzionale e istituzionale: ad essa vennero infatti subordinate le comunità di Asti e Acqui. Asti, che era più numerosa e importante, tentò di riacquisire la sua autonomia nel 1935 in occasione dell’istituzione della Provincia artigiana; nonostante il sostegno del locale podestà, il Ministero degli Interni respinse l’istanza nel 1936. Con Asti e Acqui la comunità di Alessandria ereditava anche l’amministrazione delle opere pie ebraiche delle due località; come chiarito nella nota archivistica, ciò non significò una cessazione totale dell’attività autonoma e, dunque, della produzione documentaria delle due comunità minori o delle opere pie. La datazione delle carte artigiane e di Acqui conservate in questo fondo è quasi esclusivamente relativa al periodo dopo il quale le comunità di Asti e Acqui vennero inglobate in Alessandria; viceversa, con il primo versamento sono state raccolte dall’Archivio Terracini anche carte risalenti al periodo di autonomia e rimandiamo all’inventario del 2005 per questo materiale. In secondo luogo, ricordiamo la distruzione e il saccheggio della sinagoga e dei locali attigui che vennero perpetrati nel dicembre 1943, come rappresaglia per l’uccisione di un gerarca fascista (attribuibile, pare, ai gruppi d’azione patriottica), che abbiamo anche menzionato nella nota archivistica: Perosino al riguardo sostiene che «l’archivio, la biblioteca, i documenti, tutto andò perduto»; le carte qui descritte e ordinate, insieme all’ampio fondo già versato all’Archivio Terracini e inventariato nel 2005, testimoniano, viceversa, la sopravvivenza di almeno una parte dell’archivio. Per l’epoca che va dal secondo Dopoguerra alla fine del secolo, l’attività della comunità, prima autonoma, poi sezione di quella torinese, è testimoniata ampiamente nella documentazione versata in due tranches all’Archivio Terracini e descritta, in parte, nell’inventario del 2005 e, in parte, di seguito. Menzioniamo qui soltanto il momento dell’assorbimento in Torino, ufficialmente sancito nel 1985, dopo un processo durato alcuni anni, e realizzato all’inizio del 1986. La storia della comunità alessandrina e degli enti da essa dipendenti non cessò – lo si è detto nella nota archivistica – e l’attività del delegato ed ex presidente, Silvio Norzi, è ancora documentata in varie carte successive al 1986.
Data estesa
1814 - 2009 Marzo 26
Soggetti Produttori
Descrizione Estrinseca
4 fondo, 9 subfondo, 38 serie, 56 sottoserie, 9 sotto-sottoserie, 350 UA

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