Marzo 1866. Della convenienza e competenza di un congresso rabbinico per M. Mortara rabbino maggiore.

Archivio Terracini. Fondo Saluzzo. Università Israelitica di Saluzzo. Culto e cimiteri. Culto – Rabbini. Varie. Serie 5, fald. 41, fasc. 10

 Percorso: Rabbino Marco Mortara

Il testo qui presentato è noto già dalle pagine del “Corriere Israelitico” del 1865 e del 1866, su cui Mortara pubblicò in più parti le sue riflessioni sul progetto per un sinodo rabbinico (vedi “Corriere Israelitico”, 1865, parte I, pp. 371-375; 1866, II, pp. 13-16; III, pp. 41-44; IV, pp. 71-75.)
Le varie parti furono poi riunite nel presente opuscolo e riedite a Trieste nel 1866 dal medesimo editore (A. V. Morpurgo) e per gli stessi tipi (C. Coen) della rivista triestina.

L’opuscolo consta di 16 pagine, delle quali la prima contiene una sorta di prefazione al testo, datata a Purim 5626, ovvero all’inizio di marzo del 1866. In essa Mortara espone programmaticamente le ragioni a favore di un congresso rabbinico e di una riforma del culto:

Questa dissertazione non è che lo sviluppo di un sistema da lungo tempo elaborato, la cui teorica è compresa nelle Lezioni LXVIII, e LXIX del mio Compendio della Religione Israelitica. Era destinata ad essere sottoposta alla discussione di un Congresso, o di una Conferenza di Rabbini, che avrebbero giudicato della giustezza delle idee, e dell’opportunità della loro pubblicazione. — Scrupoli, rispettabili sempre, perchè certo inspirati da timorosa coscienza, s’attraversano ancora alla proposta riunione. Scrupoli questi, giustificati in parte dalle esagerate richieste d’innovazioni, ma che per altro potrebbero essere rimossi, se potesse essere delineato un ordine di idee, le quali, lungi dall’abisso di caotiche innovazioni, come lungi dalla letale immobilità, guidassero per retto e legittimo sentiero a ripristinare il nostro culto esterno, pubblico e privato, nell’antica semplicità, giusta i precetti mosaici e la tradizionale interpretazione. […]

La polarità, sapientemente descritta da Mortara, tra i riformatori (l’«abisso di caotiche innovazioni») e i conservatori («la letale immobilità»), che sembrerebbe porre l’autore a mediatore tra i due estremi, si dissolve subito, lasciando spazio all’idea centrale del rabbino mantovano: non di riforma, né di conservazione si tratta, ma di «ripristinare il nostro culto esterno, pubblico e privato, nell’antica semplicità, giusta i precetti mosaici e la tradizionale interpretazione».
La più ampia parte dell’opuscolo è dedicata a dimostrare come l’opposizione tra i due fronti sopra menzionati sia fondata su un’interpretazione da entrambe le parti impropria del concetto di Legge orale e come il culto esterno non sia né da sottoporre ad arbitri distruttivi né tanto meno immutabile, come dimostra la pluralità di voci e di interpretazioni dei precetti contenute nella Mishnà e nel Talmud e che si era perduta per donare al culto uniformità e stabilità in tempi difficili, soprattutto nelle codificazioni di Moshè ben Maimon (Maimonide), nel Mishnè Torà, e di Yosef Caro, nello Shulchàn ‘Arùkh. Nella sezione finale, Mortara espone un’“Idea del Programma”, nel quale invita i rabbini delegati dalle rispettive comunità a riunirsi in un congresso, al fine di discutere e votare le misure da adottare per «ripristinare l’esterno Culto pubblico e privato degli Israeliti nell’antica sua vitalità, giusta i precetti del Codice Mosaico ed i Canoni tradizionali». Le decisioni saranno prese a maggioranza e come tali adottate da tutti.
Il sinodo vagheggiato a lungo da Mortara, nonostante l’avallo del Congresso di Firenze non ebbe mai luogo.

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