Marco Momigliano

Un nostalgico conservatore

Marco Momigliano nasce a Mondovì nel 1825. Da rami collaterali della sua famiglia discesero intellettuali di rilievo quali Attilio Momigliano, critico letterario, Felice Momigliano, socialista e mazziniano, Arnaldo Momigliano, storico dell’antichità classica, e Arturo Carlo Jemolo, storico e giurista. Della vita del rabbino abbiamo una preziosa testimonianza nella sua Autobiografia di un rabbino italiano (1897), raro documento italiano sulla vita nel ghetto in epoca pre-emancipatoria.
Momigliano intraprese gli studi religiosi e profani privatamente. Il Rabbino Maggiore Cantoni gli conferì il diploma di Chaver nel 1847. Fu nominato rabbino di Savigliano, comunità in cui rimase fino al 1855. Passò, poi, a Moncalvo, presso cui rimase fino al 1866. Nel 1860 gli fu conferito il grado di Chakham dal Rabbino Maggiore Olper, in occasione dell’inaugurazione del Sacro Tempio restaurato. Nel 1866 gli fu affidata la cattedra rabbinica di Bologna, dove si prodigò per la costruzione di un nuovo Tempio ed ottenne il titolo di Rabbino Maggiore nel 1877. Vi rimase sino alla morte, avvenuta nel 1900.
Del rabbino l’Archivio Terracini conserva in particolare un quaderno copialettere risalente agli anni 1870-1897, che ci consente di ricostruire il contributo di Momigliano ai dibattiti rabbinici del tempo. La corrispondenza del rabbino di Bologna testimonia come tali dibattiti non si conclusero con il Congresso di Firenze, ma al contrario perdurarono per oltre un decennio. D’altronde, ciò non sorprende, dal momento che il processo di integrazione innescato dall’emancipazione portò con sé una diffusa secolarizzazione degli ebrei italiani, i cui effetti divenivano gradualmente più estesi con il passare del tempo.
Le questioni sulle quali Momigliano interviene pertengono a vari aspetti del culto. La parità di diritti recentemente acquisita e l’integrazione all’interno della società esterna produssero profondi mutamenti nella vita degli ebrei italiani. La legge religiosa ebraica dovette, dunque, adeguarsi alle nuove condizioni.

I viaggi in treno durante il Sabato

La diffusione dei viaggi in treno richiese che il Rabbinato dirimesse la questione della loro liceità durante il Sabato. In generale gli spostamenti erano strettamente regolamentati – ed in gran parte vietati – dai precetti sabbatici. Tuttavia, i viaggi per mare costituivano un’eccezione nella Legge e su tale precedente molti rabbini fondarono la propria decisione di consentire i viaggi in treno durante il Sabato. In una lettera del 30 aprile 1873 a Samuel Nizza, suo zio, Momigliano esprime, al contrario, il proprio parere negativo in proposito. Egli argomenta, infatti, che un precetto biblico non ammette deroghe e che l’analogia con i viaggi per mare non si applichi. Sulle leggi sabbatiche tornò, peraltro, a scrivere pochi anni più tardi, in una lettera ad Alfredo Soliani marzo 1879, in cui denunciava la deplorevole inosservanza di tali precetti da parte degli studenti nelle scuole pubbliche.

Il diritto di voto ed il divieto di scrivere nei giorni di festa

Dal copialettere ci è noto un caso in cui la legge ebraica venne a confliggere con l’esercizio dei diritti politici. In occasione delle elezioni politiche del 1880 il Rabbino Maggiore di Modena, Salomon Jona, propose di intervenire sul divieto di scrivere durante il Sabato e i giorni di festa, per consentire agli ebrei italiani di recarsi a votare. Infatti quell’anno le elezioni sarebbero cadute durante il primo giorno di Shavu‘ot, dunque scrivere il nome del candidato prescelto avrebbe costituito una trasgressione del precetto. In una lettera del 7 maggio 1880 a Jona, Momigliano si oppose ad un’alterazione del precetto, proponendo invece di far applicare l’articolo della legge elettorale che consentiva di far votare una persona di fiducia in caso di impossibilità ad esprimere personalmente il proprio voto. È interessante notare come Mortara, in una lettera del maggio 1880 a Jona, dichiari la proposta di modifica «perfettamente conforme ai principi della nostra santa religione»; emerge chiaramente la distanza tra le posizioni dei due rabbini. La maggioranza dei rabbini italiani si schierò, tuttavia, con Jona, sebbene non mancassero oppositori, come testimonia la circolare del 12 maggio 1880.

L’indifferenza religiosa

Il tema che più angustia Momigliano è certamente la dilagante «miscredenza» da parte dei suoi correligionari. Egli, tuttavia, non vide mai in una riforma del culto, al contrario di Terracini, una soluzione al problema. Su questo tema i due rabbini si scontrarono tra il 1879 e 1880, in seguito alla proposta di Terracini di ridurre il numero legale (minyan) necessario per alcune funzioni religiose. Nella minuta dell’articolo inviata al Vessillo Israelitico nel novembre 1879 Momigliano oppose con forza la decisione del rabbino astigiano. A nessun rabbino, infatti competeva di alterare una norma fondamentale osservata da tempo immemore da tutti gli ebrei, dunque, non appartenente al «rito d’uso» (minhag) locale. Momigliano non fu il solo a respingere la proposta di Terracini; in una cartolina inviata al rabbino di Bologna il 13 gennaio 1880 Flaminio Servi affermava che «tutti i giornali esteri (perfino quei d’America) biasimarono l’operato del Sr. T. e lodarono la sua protesta». Terracini si difese pubblicando un opuscolo dal titolo Sull’appunto del sig. M. Momigliano rabbino in Bologna intorno al numero dieci prescritto al culto israelitico nelle pubbliche preghiere. Momigliano gli rispose personalmente il 18 gennaio 1880, restando fedele al proprio avviso sulla questione e suggerendo al suo interlocutore alcuni espedienti da adottare per raggiungere il numero legale durante le funzioni.
Nel corso della medesima lettera l’autore esprime il proprio parere negativo sul tema di un Concilio rabbinico. Un’assemblea di rabbini riuniti per discutere di una riforma del culto, infatti, non avrebbe ricondotto gli smarriti all’osservanza della Legge e avrebbe allontanato i più ortodossi. Peraltro, neanche Momigliano, come molti tra gli oppositori di Terracini e Mortara, sembra riuscire a separare l’idea di un concilio rabbinico dallo stigma dell’esito che essi ebbero a metà del secolo in Germania, quando fu sancita la definitiva separazione del movimento riformato tedesco dall’Ebraismo tradizionale. Sorprende, dunque, scoprire in una lettera di dieci anni più tardi come Momigliano torni, seppur solo in parte, sui propri passi. Deplorando ancora una volta lo stato di decadenza e abbandono che affligge la religione dei padri, Momigliano conviene con Terracini che un Concilio rabbinico sarebbe stato utile, non per riformare il culto, ma per contrastare la secolarizzazione.
Da queste lettere emerge una figura dai tratti eminentemente conservatori, avversa ad ogni riforma. «Di riforme se ne fecero ad isuberanza», scrive Momigliano a Davide Terracini. Leggendo le lettere di entrambe queste importanti figure, non si può fare a meno di notare come le une facciano da contrappunto alle altre. I due rabbini guardano alla medesima realtà, ma la decodificano differentemente, giungendo a conclusioni difficilmente conciliabili. A differenza di Terracini, dinamico e propositivo, Momigliano appare volto indietro a contemplare «dolci ricordi di un tempo che non ritorna più».

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