13 maggio 1867. Lettera: Raffaele Tedeschi invia la propria relazione del Congresso di Firenze

Percorso: Università Israelitica di Mondovì

Dati:
mittente: Raffaele Tedesco (così si firma)
destinatario: Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Università Israelitica di Mondovì
oggetto: relazione sui lavori del Congresso di Firenze

La lettera è datata 13 maggio 1867 ed è scritta su un fascicolo di carta semplice, composto di sette pagine.
Raffaele Tedeschi (o Tedesco), una volta rientrato ad Ancona, dove detiene l’incarico di segretario della comunità ebraica, si premura di inviare una relazione al Consiglio di Amministrazione di Mondovì, nella quale è di fatto trascritta buona parte del testo delle deliberazioni del Congresso. Cionondimeno, Tedeschi aggiunge alcune osservazioni di suo pugno, che gettano luce sulle ragioni, che si celano dietro ad alcune formulazioni, e sulle posizioni del rappresentante riguardo ad alcuni temi discussi dall’assemblea.
Tedeschi ci informa come l’articolo 3 del Programma – relativo alla legge “Rattazzi” – desse «luogo a parecchie discussioni, ed a varie sedute». Tedeschi rende ragione della decisione dell’assemblea di «non provocare nuove disposizioni legislative sulla organizzazione delle Università Israelitiche», affermando quanto segue:

Con questa delibera il Congresso ha evitato una discussione di principio sulla preferenza della libera associazione o della compartecipazione obbligatoria, evitando anche il pericolo che per passi inconsulti od azzardati venga accelerata l’abolizione di quelle leggi che pur giova tenere ancora in vigore in via provvisoria.

Scorgiamo nelle parole del delegato di Mondovì la difficoltà dell’Ebraismo italiano d’Ottocento di misurarsi con i dissensi interni e, dunque, sanarli, e, più in generale, di comprendere come l’uguaglianza giuridica implichi necessariamente il venir meno di molta dell’autonomia amministrativa di cui le comunità avevano goduto fino ad allora. È votata, dunque, ancora una volta una risoluzione dilatoria.
Tedeschi informa, inoltre, si essersi opposto alla proposta del Rabbino Davide Terracini di convocare un Concilio Rabbinico per discutere di una riforma del culto esteriore:

Il Sig. Rabbino Terracini mise sul tappeto nuovamente il Concilio Rabbinico in nome anche della Comunità d’Asti. Io a dir vero combattei la proposta perché la credo d’assoluta [in]competenza laicale, nella certezza che i Consigli d’Amm.ne non si opporranno ma somministreranno i mezzi necessari ai loro rabbini qualora questi vorranno addivenire di loro moto a questo Concilio. Feci anche osservare l’inopportunità del momento e che questa parola di Concilio gettata da un Congresso desterebbe l’apprensione e l’alarme nelle timorate coscienze e solleverebbe speranze peccaminose nei liberi pensatori speranze che per necessità dovrebbero venire frustrate, e quindi discordie e scismi nelle Università. Io avrei concepita una Conferenza Rabbinica per uno scopo ristretto, che avendo una stretta analogia col Bilancio delle Università si sarebbe potuto eliminare la quistione d’incompetenza.
Lo scopo di questa conferenza avrebbe dovuto essere di stabelire una sola liturgia uniforme per tutte le Università, e diffinire se sceglierne una fra le esistenti o compilarne una nuova. Il decoro del Culto e l’economia dell’azienda esige questa risoluzione perché delle piccole Comunità non hanno né i mezzi pecuniari né il personale di mantenere parecchi Tempj. Quando i Rabbini si fossero trovati insieme per questa conferenza, avrebbero avuto agio di conoscersi e di comunicarsi le loro idee su altri argomenti palpitanti, e forse da essi medesimi verrebbero gettate le basi di un Concilio futuro con uno scopo più lato, che ora è un’utopia sperare.
Questa mia proposta non è stata accetta ma ha servito se non altro di temperare il Congresso, nella risoluzione che andava a prendere sulla proposta Terracini.

L’assemblea anche in questo caso approvò una risoluzione dilatoria, affidando la stesura di un programma di riforma da discutere nell’eventuale Concilio alle singole comunità, nella persona del loro rabbino. Una volta raccolte tali proposte, la Commissione esecutiva del Congresso avrebbe convocato il Concilio. La questione era spinosa ed era stata dibattuta anche al di fuori delle mura congressuali. I principali promotori di una riforma del culto furono Marco Mortara e Davide Terracini. Tuttavia, la loro proposta trovò ampie resistenze. Il timore di «discordie e scismi» ad opera di «liberi pensatori» – come Tedeschi stesso scrive – è ben presente ed avvertito. Il ricordo dello scisma riformato è ancora troppo vivido, perché si riesca anche solo a concepire di discutere di riforma del culto in seno all’Ebraismo italiano. Tedeschi mostra una maggiore apertura sulla questione; pur reputando i tempi non maturi e un Congresso laico una sede inadatta a tale discussione, il rappresentante sosteneva la necessità di uniformare la liturgia, riducendo, dunque, il raggio d’azione di un eventuale convegno rabbinico. Un concilio di portata troppo ampia e generale rischiava – a detta di Tedeschi – di suscitare «speranze peccaminose nei liberi pensatori […] che per necessità dovrebbero venire frustrate».