Il Congresso Israelitico di Ferrara (12 maggio – 17 maggio 1863)

Il primo Congresso Israelitico a potersi a buon diritto definire “italiano” ebbe luogo a Ferrara tra il 12 ed il 17 maggio 1863. Le comunità che vi inviarono un proprio rappresentante furono 31. Tra le “grandi assenti” ricordiamo Venezia, Padova, Mantova, Roma e Trieste, che non erano ancora parte del Regno, ma anche Bologna, Napoli, Alessandria, Genova e Parma.

L’incontro fu promosso dalla comunità di Ancona, allo scopo di decidere dell’opportunità di richiedere un sussidio governativo al culto. Se tale fu la ragione addotta alla convocazione, i punti che furono inseriti nel programma furono ben dodici e ci offrono un quadro piuttosto chiaro delle questioni che le comunità ebraiche italiane sentirono la necessità di discutere collegialmente. Emerge chiaramente già dal citato programma e più compiutamente dalle deliberazioni come l’Ebraismo italiano stesse attraversando una delle maggiori e più profonde trasformazioni della sua storia. Appena due anni prima era stata proclamata l’Unità d’Italia e l’emancipazione era divenuta una realtà per gran parte degli ebrei della penisola, eccetto che per gli ebrei residenti in Piemonte e negli altri territori dei Savoia, cui l’emancipazione era stata concessa già nel 1848. Le comunità, non più solo a contatto con il mondo esterno, ne divennero parte integrante e ciò comportò un radicale mutamento nei rapporti con lo Stato. Lo stigma di alterità, che aveva legittimato fino ad allora la condizione giuridica di subalternità cui gli ebrei erano stati relegati per secoli, aveva permesso loro di godere di un’autonomia che non aveva più ragion d’essere in una società moderna. È in questo contesto che comprendiamo l’ampio spazio dedicato ai rapporti ebrei-Stato all’interno del congresso. In particolare, gli intensi dibattiti sorti intorno all’estensione della legge “Rattazzi” alle regioni del Regno di recente annessione, e ad una sua eventuale emendazione, ed intorno al divorzio e al matrimonio tra consanguinei all’interno del nuovo codice civile italiano portano alla luce una sorta di dialettica di fondo nella disposizione dell’Ebraismo italiano verso il cambiamento in atto. Da un lato, un’adesione entusiastica alla novità portata dal conseguimento di un obiettivo a lungo perseguito; dall’altro, una resistenza percepita, ma non compiutamente elaborata al sacrificio di quelle autonomie di cui le comunità in varia misura avevano goduto fino ad allora. Dunque, non sorprende poi molto che l’assemblea ferrarese rimandasse ogni decisione riguardo all’estensione della legge “Rattazzi” a tutto il Regno; al Congresso di Firenze, si decise, poi, di mantenere lo status quo, per evitare che la standardizzazione dell’organizzazione amministrativa delle comunità eliminasse le citate prerogative acquisite nel tempo. Non sorprende neanche la posizione assunta dall’assemblea in tema di divorzio e di matrimonio tra consanguinei. I rappresentanti votarono per chiedere al governo di mantenere la legislazione vigente, secondo la quale il divorzio è consentito «ai cittadini cui non è proibito dalla loro fede religiosa». Per quanto concerne il matrimonio tra consanguinei l’assemblea si adeguava al «diritto comune», ma chiedeva una speciale deroga per l’istituto del levirato, per il quale una vedova senza figli doveva sposare il cognato.
In tal senso sono preziose le considerazioni espresse dal Consiglio di Amministrazione della comunità di Saluzzo: esso mostra di comprendere bene le implicazioni della neo-acquisita parità di diritti; se da un lato si auspica che il divorzio sia esteso a tutti i sudditi del Regno, dall’altro si invita a non richiedere «una deroga al diritto comune a favore degli Israeliti».

Archivio Terracini. Fondo Saluzzo.
Università Israelitica di Saluzzo. Culto e Cimiteri.
Serie 4, fald. 20, fasc. 26.

Una copia a stampa del “Programma pel Congresso Israelitico Italiano” convocato in Ferrara pel 12 maggio 1863 fu inviata a tutte le comunità ebraiche del Regno. L’Archivio Terracini conserva la copia della comunità di Saluzzo. Il programma fu elaborato dalla Direzione dell’”Educatore Israelita”, periodico ebraico con sede a Vercelli fondato da Giuseppe Levi ed Esdra Pontremoli. Le proposte delle comunità sui temi da discutere furono riunite in 12 punti:

  1. opportunità di richiedere un sussidio governativo al culto, con riguardo anche ai sussidi municipali per le scuole elementari, per i cimiteri e per le sinagoghe;
  2. misure legislative atte a contrastare ed eliminare il fenomeno delle conversioni forzate al cattolicesimo di giovani ebrei;
  3. opportunità di integrare l’istruzione religiosa ebraica nei programmi scolastici delle scuole pubbliche, analogamente a quanto già in vigore per l’insegnamento della religione cattolica;
  4. eventuali emendamenti da proporre per la legge del 4 luglio 1857 sull’ordinamento delle Università Israelitiche, (detta legge “Rattazzi”);
  5. questione del sostegno economico ai missionari di Terra Santa;
  6. promozione di un Collegio Rabbinico italiano: erigerne uno nuovo, dove e con quali risorse?
  7. progetto per una società che promuova la diffusione di libri di contenuto ebraico;
  8. creazione di un organo centrale di rappresentanza per l’Ebraismo italiano;
  9. posizione da promuovere presso il parlamento riguardo al divorzio e al matrimonio tra consanguinei nel nuovo codice civile;
  10. opportunità di un Concilio Rabbinico italiano;
  11. uniformità di celebrazione delle feste nazionali tra le varie comunità;
  12. opportunità di richiedere una parificazione giuridica tra le feste ebraiche e quelle cristiane.

Sei dei dodici punti sopra riportati (1–4, 9, 12) riguardano la regolamentazione dei rapporti tra le comunità e il Regno italiano di recente formazione. Ciò testimonia la complessità del processo di integrazione delle realtà comunitarie all’interno dell’organismo statale.
Gli altri punti all’ordine del giorno vertono intorno a questioni interne legate all’istruzione (il Collegio Rabbinico, la società per i buoni libri israelitici), al culto (il problema a lungo dibattuto del Concilio Rabbinico, che si riunisse per discutere un’eventuale riforma del culto), all’assetto organizzativo delle comunità (la proposta di costituire un organo di rappresentanza centrale per tutto l’Ebraismo italiano).
Un confronto con il programma del Congresso di Firenze rende evidente come alcuni dei punti più significativi per il futuro dell’Ebraismo italiano risultarono non a caso quantomai spinosi e dettero luogo ad accesi dibattiti, al punto che un accordo non fu mai raggiunto e prevalse la linea del rinvio. Ancora a Firenze, infatti, si discusse della posizione da assumere riguardo alla legge “Rattazzi”; il Collegio Rabbinico italiano fu nuovamente al centro di aspri dibattiti. Non contenuto nel programma, ma nuovamente presentato in assemblea fu il tema del Concilio Rabbinico e della riforma del culto.

Archivio Terracini. Fondo Mondovì. Comunità. Rapporti con altri enti ebraici. Congresso Nazionale di Ferrara. Mon. 231

Archivio Terracini. Fondo Saluzzo. Università Israelitica di Saluzzo. Culto e Cimiteri. Serie 4, fald. 20, fasc. 26.

Il documento è conservato in due copie, una appartenente al fondo di Saluzzo, l’altra al fondo di Mondovì. Si tratta di un fascicolo di ampio formato costituito da 4 pagine. È firmato in calce dal presidente dell’assemblea congressuale, Giuseppe Levi, e dai segretari, Dott. Mosè Leone Finzi e Leone Ravenna.

Come nelle Deliberazioni del Congresso di Firenze, il testo è disposto in due colonne: a sinistra sono riportati gli articoli, a destra le deliberazioni.

Ampio spazio è dedicato alla discussione dell’art. 2: l’assemblea stilò una proposta piuttosto dettagliata allo scopo di regolare i rapporti tra ebrei di giovane età o non nel pieno delle proprie facoltà decisionali e cristiani operanti in strutture, quali le Case dei Catecumeni, gli ospedali e le carceri. L’obiettivo era quello di garantire nei fatti ciò che sul piano giuridico era già previsto: la piena libertà di fede al riparo da conversioni forzate o non del tutto spontanee. Ciò dimostra come il conseguimento dell’emancipazione non avesse eliminato nel volgere di un giorno secoli di pratiche antigiudaiche, radicate nel tessuto sociale del paese.

Per l’art. 3 fu deliberato di chiedere al governo di esigere dagli studenti ebrei frequentanti scuole pubbliche un «certificato di eseguiti studi religiosi», al pari di quanto già avveniva per gli studenti cattolici.

L’art. 1, che era all’origine della convocazione del Congresso, ottiene ben poco spazio; anche in questo caso si riconobbe la necessità di equiparare l’Ebraismo alle altre religioni professate nel Regno, richiedendo un sussidio statale, ma si demandò la stesura della proposta alla Commissione esecutiva da eleggere in seno al medesimo Congresso. Il progetto, tuttavia, si arenerà ben presto: al Congresso fiorentino si delibererà per abbandonare tale proposito, temendo che un provvedimento in tal senso portasse ad una maggiore ingerenza dello Stato nella vita comunitaria.

Un primo timido passo verso il superamento del particolarismo ebraico italiano si tenta proprio a Ferrara: si stabilisce che i rappresentanti delle comunità si riuniscano ogni tre anni per discutere di temi di generale interesse e si elegge una Commissione esecutiva delle deliberazioni del congresso (art. 8). Tuttavia, tale commissione è completamente sottomessa al parere delle singole comunità, che si riveleranno poco inclini a farsi rappresentare da essa. Si adotta, dunque, una soluzione contingente e non permanente, un organo che si riunisca all’occorrenza, ma che non abbia facoltà di tracciare una rotta comune per l’Ebraismo italiano. Non è un caso che dopo la presa di Roma e la conclusione del processo unitario italiano nel 1870, la Commissione verrà sciolta e si dovrà attendere il 1914 perché le comunità si uniscano nuovamente in un Consorzio delle Università e Comunità israelitiche italiane.

Il punto che forse incarna meglio l’incapacità dell’Ebraismo italiano di superare la propria dimensione “diasporica”, autonomistica, è la discussione dell’art. 4. L’assemblea congressuale decide, infatti, di rimandare ogni decisione sugli eventuali emendamenti da applicare alla legge “Rattazzi” e di chiedere il parere delle singole comunità. Il progetto si risolse in un nulla di fatto, come risulta dalle deliberazioni del Congresso fiorentino; le comunità preferirono mantenere la legge nella sua forma originaria e non estenderla alle comunità di recente annessione, nel timore che una ridefinizione giuridica del rapporto Stato-comunità conducesse ad ulteriori – indesiderate, possiamo senz’altro aggiungere – ingerenze da parte del primo nella vita delle seconde. Il paradosso, solo apparente, risiede nel contrasto tra l’attivo dinamismo dell’Ebraismo italiano nel far valere i propri diritti di recente acquisizione e la resistenza opposta alle conseguenze più profonde che quell’uguaglianza di fronte alla legge a lungo vagheggiata comportava.

Gli artt. 6 e 10 ci riportano a temi di tipo interno e specificamente religioso. Non devono trarre in inganno le poche righe loro dedicate: furono temi al centro di aspre contese e che forse mostrano con maggior forza le profonde fratture presenti all’interno dell’Ebraismo italiano. Non è un caso se ogni decisione riguardo ad entrambe le questioni fu rimandata al congresso successivo. Sulla questione del Collegio Rabbinico la rivalità tra Livorno e Padova nell’aspirare al titolo di collegio rabbinico nazionale non fu risolta. Il Collegio di Padova era sì più innovativo, ma non era ancora parte del Regno. Anche l’eventualità di convocare un concilio rabbinico che discutesse di eventuali riforme da applicare al culto dette luogo ad aspri dibattiti. Forte era il timore di uno scisma analogo a quello dell’Ebraismo Riformato tedesco di inizio secolo. Davide Terracini fu tra i maggiori sostenitori di una riforma del culto, pur nel rispetto della tradizione, e per questo sia a Ferrara sia a Firenze promosse con ardore la necessità che i rabbini italiani si riunissero per discuterne. Molti gli si opposero, mettendo in luce un dissenso interno che si preferì tacere. Ciò è reso evidente anche dal fatto che fu lo stesso Terracini a ripresentare il tema escluso dal programma del Congresso fiorentino.

Altro esempio del paradosso citato poco sopra è costituito dall’art. 9: in materia di divorzio l’assemblea auspicò che il nuovo codice civile mantenesse la distinzione tra confessioni, permettendo il divorzio esclusivamente a coloro cui la propria fede lo consentisse, come previsto dalla normativa fino ad allora vigente; si chiedeva, inoltre, di mantenere una deroga speciale per gli ebrei riguardo al matrimonio tra consanguinei nei casi di levirato.
Prezioso è al riguardo un altro documento conservato in archivio, il verbale di riunione del consiglio di amministrazione della comunità di Saluzzo, datato 30 settembre 1863, in cui vi sono discusse molte di queste delibere. Ne ricaviamo la prospettiva di una singola comunità di fronte al mutamento radicale portato dall’emancipazione civile.

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